«Ho molti seri problemi e mi sembra di renderli più tortuosi e dolorosi cercando di risolverli. Sono al limite delle mie risorse e non so che cosa fare. In aggiunta a tutto ciò, sono sorda e devo usare questa cosaccia come apparecchio acustico. Ho diversi figli e un marito che mi ha lasciata. Sono veramente preoccupata per i miei figli, perché voglio che evitino tutti i tormenti che ho patito io».
Come ci preoccupiamo di trovare una risposta ai nostri problemi! Siamo talmente ansiosi di trovarla che non sappiamo considerare il problema; ciò impedisce la nostra quieta osservazione di esso. Il problema è la cosa importante, non la risposta. Se cerchiamo una risposta, la troveremo; ma il problema rimarrà, dato che la risposta è estranea a esso. La nostra ricerca mira a una fuga dal problema e la soluzione è un rimedio superficiale, e così non si ha alcuna comprensione del problema. Tutti i problemi sorgono da una fonte e, senza comprenderne la fonte, ogni sforzo per risolverli condurrà soltanto a nuova confusione e nuova infelicità. Innanzitutto si deve essere davvero certi che la propria intenzione di comprendere il problema sia seria, e realizzare la necessità di liberarsi di tutti i problemi, poiché solo allora ci si può avvicinare all’artefice dei problemi. Senza libertà dai problemi non può esserci tranquillità, e la tranquillità è essenziale alla felicità, la quale non è fine a se stessa. Come lo specchio d’acqua è immobile quando cessa la brezza, così la mente è immobile con la cessazione dei problemi. Ma la mente non può essere resa immobile; se lo è, è morta, è uno specchio d’acqua stagnante. Quando ciò è chiaro, allora l’artefice dei problemi può essere osservato. L’osservazione deve essere quieta e non conforme a una qualche intenzione prestabilita, basata su piacere e dolore.
«Ma lei sta chiedendo l’impossibile! La nostra educazione esercita la mente a differenziare, a confrontare, a giudicare, a scegliere, ed è molto difficile non condannare o giustificare quel che viene osservato. Come ci si può liberare di questo condizionamento e osservare in modo quieto?»
Se si vede che l’osservazione quieta, che la consapevolezza passiva è essenziale alla comprensione, allora la verità della propria percezione libera dal retroterra culturale. È solo quando non si vede l’immediata necessità di una consapevolezza passiva, e ciò nonostante vigile, che sorge il «come», la ricerca di un mezzo che dissolva quel retroterra. È la verità a liberare, non il mezzo o il sistema. Ci si deve rendere conto della verità che solo l’osservazione quieta genera la comprensione. Allora soltanto si è liberi dalla condanna e dalla giustificazione. Quando si vede il pericolo non ci si domanda come fare a starne lontani. È perché non si vede la necessità di essere consapevoli passivamente che si domanda «come». Perché non ne vede la necessità?
«Lo voglio, ma non ho mai riflettuto in questa direzione prima d’ora. Tutto quello che posso dire è che voglio sbarazzarmi dei miei problemi, perché sono un vero supplizio per me. Voglio essere felice, come tutti.»
Consciamente o inconsciamente ci rifiutiamo di vedere quanto sia indispensabile essere consapevoli passivamente, perché non vogliamo veramente lasciare andare i nostri problemi. Che cosa saremmo senza di essi? Piuttosto che arrischiarci a inseguire qualcosa che può condurci chissà dove, preferiremmo aggrapparci a qualcosa che conosciamo, per quanto doloroso possa essere. Quanto meno i problemi ci sono ben noti, mentre il pensiero di inseguirne l’artefice, non sapendo dove ciò possa condurre, suscita in noi paura e ottusità. La mente sarebbe perduta senza il fastidio dei problemi; si nutre di problemi, siano essi mondiali o domestici, politici o personali, religiosi o ideologici. E così i nostri problemi ci rendono gretti e meschini. Una mente che si tormenta con problemi mondani è tanto meschina quanto quella che si preoccupa del progresso spirituale che consegue. I problemi gravano la mente di paura, poiché danno forza al sé, al «me» e al «mio». Senza problemi, senza successi e fallimenti, il sé non è.
«Ma come si può esistere senza il sé? È la fonte d’ogni azione.»
Fintanto che l’azione è il risultato del desiderio, della memoria, della paura, del piacere e del dolore, cagiona inevitabilmente conflitto, confusione e antagonismo. La nostra azione è il risultato del nostro condizionamento, a qualsiasi livello, e la nostra risposta alla provocazione, essendo inadeguata e incompleta, non può far altro che produrre conflitto, che è il problema. Il conflitto è la struttura propria del sé. È del tutto possibile vivere senza conflitto, il conflitto della bramosia, della paura, del successo, ma questa possibilità sarà meramente teorica e non effettiva sino a che non venga scoperta grazie all’esperienza diretta. Vivere senza bramosia è possibile solo quando siano comprese le vie del sé.
«Pensa che la mia sordità sia dovuta alle mie paure e alle mie repressioni? I medici mi hanno garantito che non c’è nulla che non vada strutturalmente. Ho qualche possibilità di riacquistare l’udito? Per tutta la vita sono stata repressa, in un modo o nell’altro. Non ho mai fatto quello che volevo veramente.»
Interiormente o esteriormente è più semplice reprimere che comprendere. Comprendere è difficile, specialmente per coloro che sono stati pesantemente condizionati dall’infanzia. Per quanto estenuante, la repressione diventa una questione di abitudine. La comprensione non può mai tradursi in un’abitudine, in una faccenda di routine; essa richiede un’attenzione, una vigilanza costanti. Per poter comprendere, devono esserci docilità, sensibilità, un ardore che non ha nulla a che fare con la sentimentalità. Qualsiasi forma di repressione non richiede alcuna stimolazione della consapevolezza. È il modo di reagire più comodo e più stupido. La repressione è il conformarsi a un’idea, a un modello, e dà una sicurezza, una rispettabilità superficiali. La comprensione libera, ma la repressione limita sempre, è causa del chiudersi in se stessi. La paura dell’autorità, dell’insicurezza, dell’opinione costruisce un rifugio ideologico, con la sua controparte fisica, a cui la mente si volge. Questo rifugio, a qualsivoglia livello si possa porre, alimenta sempre la paura e dalla paura derivano la sostituzione, la sublimazione o la disciplina, che sono tutte forme di repressione. La repressione deve trovare uno sbocco, sia esso una malattia fisica o una qualche illusione ideologica. Si paga lo scotto a seconda del proprio carattere e delle proprie idiosincrasie.
«Mi sono accorta che ogniqualvolta c’è da sentire qualcosa di spiacevole, io mi rifugio dietro questo apparecchio, che, conseguentemente, mi aiuta a fuggire nel mio mondo. Ma come ci si deve liberare dalla repressione di anni? Non richiederà molto tempo?»
Non è una questione di tempo, di scavare nel passato o di analisi accurata; è questione di vedere la verità della repressione. Se si è consapevoli passivamente, senza scelta alcuna, dell’intero processo della repressione, se ne vede la verità. Non si può scoprire tale verità se si pensa in termini di ieri e di domani. La verità non deve essere capita con il passare del tempo. Non è cosa che debba essere conseguita. È vista o non è vista; non può essere percepita gradualmente. La volontà di liberarsi dalla repressione è un ostacolo alla comprensione della verità di essa, poiché la volontà è desiderio, sia esso positivo o negativo, e con il desiderio non può esserci consapevolezza passiva. È il desiderio o la brama che cagiona la repressione; e questo stesso desiderio, sebbene sia ora chiamato volontà, non può mai liberarsi dalla sua creazione. Ancora una volta, si deve percepire la verità della volontà grazie a una consapevolezza passiva e, ciò nonostante vigile.
L’analizzante, quantunque possa separarsene, è parte dell’analizzato e giacché è condizionato dalla cosa analizzata, non se ne può liberare. Ancora una volta, si deve vedere la verità di ciò. È la verità che libera, non la volontà e non lo sforzo.
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