mercoledì 25 gennaio 2012

Krishnamurti: Problemi e fughe



«Ho molti seri problemi e mi sembra di renderli più tortuosi e dolorosi cercando di risolverli. Sono al limite delle mie risorse e non so che cosa fare. In aggiunta a tutto ciò, sono sorda e de­vo usare questa cosaccia come apparecchio acustico. Ho diversi figli e un marito che mi ha lasciata. Sono veramente preoccupata per i miei figli, perché voglio che evitino tutti i tormenti che ho patito io».

Come ci preoccupiamo di trovare una risposta ai nostri pro­blemi! Siamo talmente ansiosi di trovarla che non sappiamo considerare il problema; ciò impedisce la nostra quieta osser­vazione di esso. Il problema è la cosa importante, non la rispo­sta. Se cerchiamo una risposta, la troveremo; ma il problema rimarrà, dato che la risposta è estranea a esso. La nostra ricerca mira a una fuga dal problema e la soluzione è un rimedio superficiale, e così non si ha alcuna comprensione del proble­ma. Tutti i problemi sorgono da una fonte e, senza compren­derne la fonte, ogni sforzo per risolverli condurrà soltanto a nuova confusione e nuova infelicità. Innanzitutto si deve essere davvero certi che la propria intenzione di comprendere il problema sia seria, e realizzare la necessità di liberarsi di tutti i problemi, poiché solo allora ci si può avvicinare all’artefice dei problemi. Senza libertà dai problemi non può esserci tranquil­lità, e la tranquillità è essenziale alla felicità, la quale non è fine a se stessa. Come lo specchio d’acqua è immobile quando ces­sa la brezza, così la mente è immobile con la cessazione dei problemi. Ma la mente non può essere resa immobile; se lo è, è morta, è uno specchio d’acqua stagnante. Quando ciò è chia­ro, allora l’artefice dei problemi può essere osservato. L’osservazione deve essere quieta e non conforme a una qualche in­tenzione prestabilita, basata su piacere e dolore.

«Ma lei sta chiedendo l’impossibile! La nostra educazione esercita la mente a differenziare, a confrontare, a giudicare, a scegliere, ed è molto difficile non condannare o giustificare quel che viene osservato. Come ci si può liberare di questo condizionamento e osservare in modo quieto?»

Se si vede che l’osservazione quieta, che la consapevolezza passiva è essenziale alla comprensione, allora la verità della propria percezione libera dal retroterra culturale. È solo quan­do non si vede l’immediata necessità di una consapevolezza passiva, e ciò nonostante vigile, che sorge il «come», la ricerca di un mezzo che dissolva quel retroterra. È la verità a liberare, non il mezzo o il sistema. Ci si deve rendere conto della verità che solo l’osservazione quieta genera la comprensione. Allora soltanto si è liberi dalla condanna e dalla giustificazione. Quando si vede il pericolo non ci si domanda come fare a starne lontani. È perché non si vede la necessità di essere consape­voli passivamente che si domanda «come». Perché non ne vede la necessità?

«Lo voglio, ma non ho mai riflettuto in questa direzione prima d’ora. Tutto quello che posso dire è che voglio sbarazzarmi dei miei problemi, perché sono un vero supplizio per me. Voglio essere felice, come tutti.»

Consciamente o inconsciamente ci rifiutiamo di vedere quanto sia indispensabile essere consapevoli passivamente, perché non vogliamo veramente lasciare andare i nostri problemi. Che cosa saremmo senza di essi? Piuttosto che arrischiarci a inseguire qualcosa che può condurci chissà dove, preferirem­mo aggrapparci a qualcosa che conosciamo, per quanto doloroso possa essere. Quanto meno i problemi ci sono ben noti, mentre il pensiero di inseguirne l’artefice, non sapendo dove ciò possa condurre, suscita in noi paura e ottusità. La mente sarebbe perduta senza il fastidio dei problemi; si nutre di pro­blemi, siano essi mondiali o domestici, politici o personali, religiosi o ideologici. E così i nostri problemi ci rendono gretti e meschini. Una mente che si tormenta con problemi mondani è tanto meschina quanto quella che si preoccupa del progresso spirituale che consegue. I problemi gravano la mente di paura, poiché danno forza al sé, al «me» e al «mio». Senza problemi, senza successi e fallimenti, il sé non è.

«Ma come si può esistere senza il sé? È la fonte d’ogni azione.»

Fintanto che l’azione è il risultato del desiderio, della memoria, della paura, del piacere e del dolore, cagiona inevitabil­mente conflitto, confusione e antagonismo. La nostra azione è il risultato del nostro condizionamento, a qualsiasi livello, e la nostra risposta alla provocazione, essendo inadeguata e incom­pleta, non può far altro che produrre conflitto, che è il proble­ma. Il conflitto è la struttura propria del sé. È del tutto possi­bile vivere senza conflitto, il conflitto della bramosia, della paura, del successo, ma questa possibilità sarà meramente teo­rica e non effettiva sino a che non venga scoperta grazie all’esperienza diretta. Vivere senza bramosia è possibile solo quando siano comprese le vie del sé.

«Pensa che la mia sordità sia dovuta alle mie paure e alle mie repressioni? I medici mi hanno garantito che non c’è nulla che non vada strutturalmente. Ho qualche possibilità di riacqui­stare l’udito? Per tutta la vita sono stata repressa, in un modo o nell’altro. Non ho mai fatto quello che volevo veramente.»

Interiormente o esteriormente è più semplice reprimere che comprendere. Comprendere è difficile, specialmente per colo­ro che sono stati pesantemente condizionati dall’infanzia. Per quanto estenuante, la repressione diventa una questione di abitudine. La comprensione non può mai tradursi in un’abitu­dine, in una faccenda di routine; essa richiede un’attenzione, una vigilanza costanti. Per poter comprendere, devono esserci docilità, sensibilità, un ardore che non ha nulla a che fare con la sentimentalità. Qualsiasi forma di repressione non richiede alcuna stimolazione della consapevolezza. È il modo di reagire più comodo e più stupido. La repressione è il conformarsi a un’idea, a un modello, e dà una sicurezza, una rispettabilità su­perficiali. La comprensione libera, ma la repressione limita sempre, è causa del chiudersi in se stessi. La paura dell’auto­rità, dell’insicurezza, dell’opinione costruisce un rifugio ideologico, con la sua controparte fisica, a cui la mente si volge. Questo rifugio, a qualsivoglia livello si possa porre, alimenta sempre la paura e dalla paura derivano la sostituzione, la subli­mazione o la disciplina, che sono tutte forme di repressione. La repressione deve trovare uno sbocco, sia esso una malattia fisica o una qualche illusione ideologica. Si paga lo scotto a se­conda del proprio carattere e delle proprie idiosincrasie.

«Mi sono accorta che ogniqualvolta c’è da sentire qualcosa di spiacevole, io mi rifugio dietro questo apparecchio, che, conseguentemente, mi aiuta a fuggire nel mio mondo. Ma come ci si deve liberare dalla repressione di anni? Non richiederà mol­to tempo?»

Non è una questione di tempo, di scavare nel passato o di analisi accurata; è questione di vedere la verità della repressio­ne. Se si è consapevoli passivamente, senza scelta alcuna, dell’intero processo della repressione, se ne vede la verità. Non si può scoprire tale verità se si pensa in termini di ieri e di domani. La verità non deve essere capita con il passare del tempo. Non è cosa che debba essere conseguita. È vista o non è vista; non può essere percepita gradualmente. La volontà di liberarsi dalla repressione è un ostacolo alla comprensione della verità di essa, poiché la volontà è desiderio, sia esso posi­tivo o negativo, e con il desiderio non può esserci consapevo­lezza passiva. È il desiderio o la brama che cagiona la repres­sione; e questo stesso desiderio, sebbene sia ora chiamato volontà, non può mai liberarsi dalla sua creazione. Ancora una volta, si deve percepire la verità della volontà grazie a una consapevolezza passiva e, ciò nonostante vigile. 

L’analizzante, quantunque possa separarsene, è parte dell’analizzato e giac­ché è condizionato dalla cosa analizzata, non se ne può liberare. Ancora una volta, si deve vedere la verità di ciò. È la verità che libera, non la volontà e non lo sforzo.


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