venerdì 20 gennaio 2012

Krishnamurti: Sulla collera



Perfino a quell’altitudine il calore era intenso. Il vetro dei finestrini era caldo al tatto. Il costante ronzio dei motori dell’aereo aveva un effetto rilassante e molti dei passeggeri sonnecchiavano. La terra si stendeva assai al di sotto di noi, luccicando nel caldo: un marrone interminabile con un’occasionale chiazza di verde. Ben presto atterrammo e la calura si fece insopportabile, letteralmente penosa; anche all’ombra di un edificio ci sentiva­mo la testa scoppiare. L’estate era inoltrata e la campagna sem­brava un deserto. Decollammo di nuovo e l’aereo prese quota, in cerca di venti freschi. Due nuovi passeggeri sedettero sui se­dili opposti e presero a parlare ad alta voce; era impossibile non stare ad ascoltarli. Cominciarono piuttosto tranquillamente; ma presto la collera si insinuò nelle loro voci, la collera della fa­miliarità e del rancore. Nella loro impetuosità parevano avere scordato il resto dei passeggeri; se la prendevano a tal punto l’uno con l’altro, che non esisteva più nessuno, tranne loro.

La collera ha come caratteristica peculiare l’isolamento; come il dolore, essa isola e, se non altro momentaneamente, ogni re­lazione si interrompe. La collera ha la forza e la vitalità tempo­ranea dell’isolato. Nella collera c’è una strana disperazione, poiché l’isolamento è disperazione. La rabbia del disappunto, della gelosia, dell’impulso a ferire, dà una violenta liberazione il cui piacere è l’autogiustificazione. Condanniamo gli altri e proprio quella condanna è una giustificazione per noi stessi. Senza un qualsiasi atteggiamento, sia esso di presunzione o di autoumiliazione, che cosa siamo? Usiamo ogni mezzo per difenderci e la collera, come l’odio, è uno dei più semplici. Una cosa è la collera spontanea, un repentino infiammarsi che è presto dimenticato; ma un’altra è quella che è stata deliberatamente alimentata, che è stata premeditata e che mira a danneg­giare e a distruggere. La rabbia spontanea può avere delle cau­se fisiologiche che possono essere rilevate e curate; mentre molto più sottile e difficile da trattare è la rabbia come effetto di una causa psicologica. Alla maggior parte di noi non impor­ta d’essere in collera: troviamo delle scuse. Per quale motivo non dovremmo essere arrabbiati quando qualcuno viene maltrattato o quando lo siamo noi stessi? Così, giustamente, ci adiriamo. Non ci limitiamo a dire che siamo arrabbiati; ci di­lunghiamo in minuziose spiegazioni della causa di un tale stato. Non diciamo mai soltanto che siamo gelosi o aspri, ma lo giustifichiamo o spieghiamo. Chiediamo come possa esserci amore senza gelosia, oppure sosteniamo che la nostra asprezza è dipesa dalle azioni altrui, e così via.

Ciò che sostiene la collera, che le dà opportunità e profondità, è la spiegazione, la costruzione verbale, tacita o espressa. La spiegazione, tacita o espressa, agisce come uno scudo contro la scoperta di noi stessi quali siamo. Vogliamo essere lodati o lu­singati, pretendiamo qualcosa; e quando ciò non si verifica, ne siamo contrariati, ci inaspriamo o ingelosiamo. Allora, brutalmente o delicatamente, accusiamo qualcun altro; attribuendogli la responsabilità della nostra asprezza. Tu hai una grande importanza, perché la mia felicità, la mia posizione, il mio pre­stigio dipendono da te. Grazie a te, mi realizzo, dunque, tu sei importante per me. Devo proteggerti; devo possederti. Grazie a te, fuggo da me stesso, e quando vengo rigettato su di me, per timore del mio stato, vado in collera. La rabbia assume svariate forme: disappunto, risentimento, asprezza, gelosia, e via dicendo.

L’accumularsi della rabbia, che è risentimento, richiede l’anti­doto del perdono; ma l’accumularsi della rabbia è molto più si­gnificativo del perdono. Il perdono non è necessario se la rab­bia non viene accumulata. Il perdono è essenziale se c’è risentimento; ma l’essere liberi da adulazione e offesa, senza la durezza dell’indifferenza, favorisce la compassione, la benevo­lenza. Non ci si può liberare dalla collera con un atto di volontà, perché la volontà fa parte della violenza. La volontà è l’effetto del desiderio, è la brama di essere, e il desiderio nella sua essen­za è aggressivo, dominante. Sopprimere la collera per mezzo di uno sforzo della volontà significa trasferirla a un livello diffe­rente, dandole un nome diverso; ma essa continua pur sempre a far parte della violenza. Essere liberi dalla violenza, che non si­gnifica coltivare la non-violenza, implica la comprensione del desiderio. Non c’è un surrogato spirituale del desiderio; non lo si può sopprimere o sublimare. È necessaria una consapevolez­za del desiderio tacita e priva di scelta; e questa consapevolezza passiva è l’esperienza diretta del desiderio, senza che vi sia colui che esperisce a darle un nome.

Nessun commento:

Posta un commento