martedì 6 dicembre 2011

Di fronte alla vita. Introduzione



Mi sembra che in questo mondo in cui vanno ingigantendo crisi e problemi occorra urgentemente una moralità, una condotta, di marca completamente diversa, un modo di agire che scaturisca dalla compren­sione di tutto intero il processo della vita umana. Noi cerchiamo di fronteggiare questi problemi con rimedi politici od organizzativi, con modifiche di carattere economico e riforme di vario genere; con nessuno di questi mezzi tuttavia potremo mai risolvere le complesse difficoltà dell’esistenza umana, anche se essi apportano un temporaneo miglioramento. Ogni riforma, per ampia e duratura che possa apparire, da sola non è altro che matrice di ulteriore disordine e di rinnovata necessità di riforma. Se non è accompagnato dalla comprensione della complessa condizione umana il mero riformare non può produrre che una imba­razzante richiesta di ulteriori riforme. Non c’è mai fine alle riforme: è una strada che non può condurre ad alcuna soluzione di fondo.
Nemmeno le rivoluzioni politiche, economiche o sociali costituiscono una risposta; infatti non hanno prodotto che spaventose tirannie o il puro e semplice trasferimento del potere e dell’autorità da un gruppo a un altro. Rivoluzioni di questo tipo non forniscono in nessuna occa­sione la via d’uscita dallo stato di confusione e conflitto in cui versiamo.
C’è però una rivoluzione di natura totalmente diversa che deve avverarsi perché si possa venir fuori dalla serie ininterrotta di ansie, di conflitti, di frustrazioni nei cui lacci siamo prigionieri. Questa rivolu­zione non deve cominciare da teoria o ideazione, che in ultimo si dimostrano prive di valore, bensì da una trasformazione radicale della mente stessa, trasformazione che può derivare soltanto da una giusta educazione e da un completo sviluppo dell’essere umano. È una rivolu­zione che deve avvenire in tutto quanto lo spirito umano, non soltanto nel pensiero. In ultima analisi il pensiero non è che un derivato, non la sorgente; e occorre che abbia luogo una trasformazione della sorgente stessa, non basta il modificarsi del suo derivato. Oggi noi ci arrabattiamo con dei derivati, con dei sintomi, non operiamo un cambiamento vitale, sradicando i vecchi abiti mentali, sgombrando la mente da tradizioni e consuetudini. È questo cambiamento vitale che deve importarci, e soltanto una giusta educazione può determinarlo.
Indagare ed imparare è funzione della mente. Quando dico imparare non intendo l’addestramento della memoria, ma la capacità di pensare con chiarezza ed equilibrio, senza farsi illusioni, prendendo le mosse dai fatti, non da credenze e ideali. Non c’è apprendimento se il pensiero trae origine da conclusioni. La mera acquisizione di nozioni non è apprendimento. Imparare comporta amore per la comprensione e amore di fare una cosa in se stessa. Imparare è possibile soltanto quando non c’è coercizione in nessuna forma, e la coercizione ha molte forme, non è così? Può essere determinata dall’influenza di o dall’attaccamento per altri, da minacce, da incoraggiamento persuasivo o da sottili forme di ricompensa.
La gente per lo più ritiene che l’apprendimento venga favorito dal confronto, mentre è vero proprio il contrario. Il confronto genera fru­strazione e incoraggia l’invidia che vien definita competizione. Come altre forme di persuasione il confronto ostacola l’apprendimento e genera paura; anche l’ambizione genera paura. L’ambizione, che sia individuale o che si identifichi con una collettività è sempre antisociale. La cosiddetta nobile ambizione nei rapporti fra uomini è fondamental­mente deleteria.
Bisogna incoraggiare lo svilupparsi di una mente sana, che sia capace di affrontare i molti aspetti della vita nel loro complesso e che non cerchi di sfuggirli, in tal modo entrando in contraddizione con se stessa, diventando frustrata, amara, cinica. Ed è essenziale che la mente sia consapevole del proprio condizionamento, dei propri motivi e degli scopi che persegue.
Dato che lo sviluppo di una mente sana è uno dei nostri obiettivi principali diventa molto importante il modo come si insegna. Bisogna coltivare la mente nel suo complesso, non limitarsi a impartire nozioni. Nel processo dell’istruzione l’educatore deve invitare alla discussione ed incoraggiare gli studenti a indagare e pensare con indipendenza.
L’autorità nel senso di “colui che sa” non ha posto nell’apprendi­mento. L’educatore e lo studente, attraverso lo speciale rapporto che li collega, imparano entrambi; ciò non vuol dire tuttavia che l’educatore debba trascurare l’ordine nel pensiero, ma quest’ordine non lo si raggiunge con una disciplina consistente in asserzioni dogmatiche di cogni­zioni, nasce invece naturalmente quando l’educatore comprende che per coltivare l’intelligenza dev’esserci il senso della libertà. E non libertà di fare tutto quel che può piacere o di pensare in chiave di pura e sem­plice contraddizione, ma libertà nella quale lo studente venga aiutato arendersi consapevole delle istanze e degli obiettivi che lo spingono che gli si riveleranno attraverso il suo pensare ed il suo agire quotidiani.
La mente sottoposta a disciplina non è mai libera, né potrà la mente che abbia soppresso il desiderio essere mai libera. La disciplina imposta non costringe forse la mente a muoversi entro i limiti di uno schema fisso di pensiero e di credenze? La mente in questo caso non è mai libera d’essere intelligente. La disciplina porta con sé sottomissione all’autorità; dà la capacità di funzionare entro il tessuto di una società che richieda abilità funzionale, ma non risveglia un’intelligenza che abbia capacità proprie. La mente che non abbia coltivato nient’altro che capa­cità acquisite per mezzo della memoria è come un calcolatore elettro­nico che, pur funzionando con stupefacente abilità e precisione, è pur sempre soltanto una macchina. L’autorità può convincere la mente a pensare muovendosi in una particolare direzione. Ma pensare guidati lungo determinate linee o in accordo a conclusioni prestabilite, equivale a non pensare affatto; è un mero funzionare come una macchina umana e questo genera una insoddisfazione non ragionata a cui si accompagnano frustrazione ed altre sofferenze.
Il pieno sviluppo di ciascun individuo crea una società di eguali. L’attuale lotta sociale che mira a produrre uguaglianza a livello econo­mico o a qualche livello spirituale è vuota di qualsivoglia significato. Riforme sociali intese a stabilire l’eguaglianza sociale nutrono altre forme di attività antisociali; con una giusta educazione invece non c’è alcun bisogno di ricercare l’eguaglianza ricorrendo a riforme sociali o d’altro tipo, poiché viene a cessare l’invidia e i confronti ch’essa porta con sé.
Dobbiamo fare differenza tra funzione e status. Lo status con tutto il suo prestigio emotivo e gerarchico nasce soltanto quando si confron­tano fra loro le diverse funzioni considerandole elevate o umili. Quando ciascun individuo fiorisce nelle sue piene capacità, non c’è allora confronto fra funzioni; c’è solamente l’espressione delle capacità di un uomo come insegnante, come primo ministro o come giardiniere e allo status allora non si accompagna più il morso dell’invidia.
Ora noi riconosciamo una capacità funzionale o tecnica premettendo al nome un titolo; ma se noi fossimo veramente preoccupati del completo sviluppo dell’essere umano ci avvicineremmo alla questione in maniera assolutamente diversa. L’individuo che abbia capacità potrà prendere un diploma e aggiungere lettere al suo nome e potrà non farlo, come meglio crede. Ma saprà da sé quali sono le sue vere e profonde capacità, quelle che nessun diploma può incorniciare, e la loro espressione non implicherà quella sicurezza egocentrica che solitamente una mera capa­cità tecnica produce. Quest’ultimo tipo di sicurezza si basa sul con­fronto ed è quindi antisociale. Il confronto può anche esistere per motivi utilitari; ma non è dell’educatore il confrontare la capacità dei suoi studenti dando di essi un giudizio migliore o peggiore.
Poiché ci interessa lo sviluppo totale dell’individuo, in principio potrà non essere consentito allo studente di scegliere da sé le materie da studiare, perché la sua scelta facilmente sarà basata su stati d’animo passeggeri e su pregiudizi, o sarà determinata dalla ricerca di ciò che può risultare più facile; oppure egli potrà scegliere secondo la spinta immediata di un bisogno passeggero. Ma se egli viene aiutato a scoprire da sé e a coltivare le sue capacità innate allora sceglierà spontaneamente non le materie più facili ma quelle che gli consentiranno di esprimere le proprie capacità nella misura più alta e più piena. Se lo studente verrà aiutato fin dal principio ad avere una visione globale della vita e di tutti i suoi problemi, psicologici, intellettuali ed emotivi, egli non ne sarà spaventato.
Intelligenza è capacità di affrontare la vita come un tutto unico; dare licenze e voti perciò non assicura l’intelligenza allo studente; al contrario, in tal modo si degrada la dignità umana. Una simile valuta­zione comparativa deforma la mente; questo tuttavia non vuol dire che l’insegnante non debba osservare il progresso di ogni studente e tenerne nota. I genitori, naturalmente ansiosi di apprendere il progresso dei loro figli, vorranno un resoconto; ma se sfortunatamente essi non capi­scono quel che l’educatore sta cercando di fare, il resoconto diventerà uno strumento di coercizione nelle loro mani, che essi useranno per produrre i risultati che desiderano e che in tal modo demolirà il lavoro compiuto dall’insegnante.
I genitori dovrebbero comprendere il tipo di educazione che la scuola intende dare. In generale essi sono soddisfatti se vedono che i figli si preparano ad ottenere un qualche diploma che gli assicurerà un modo di guadagnarsi da vivere. Pochissimi si preoccupano di qualcosa di più. Naturalmente desiderano vedere felici i loro figli, ma al di là di questo vago desiderio pochissimi si preoccupano del loro totale sviluppo. Poiché la maggior parte dei genitori desidera soprattutto che i figli abbiano una carriera di successo, li spaventano o li spingono con affettuosa violenza ad acquisire cognizioni, e per conseguenza il libro diventa qualcosa di molto importante; con esso si ha pura e semplice coltivazione della memoria, pura e semplice ripetizione, non vera capa­cità di pensiero.
Forse la maggior difficoltà che l’educatore deve fronteggiare è l’indifferenza dei genitori nei confronti di un’educazione più vasta e profonda. Per lo più essi si preoccupano che venga coltivata una qualche conoscenza superficiale che assicurerà ai loro figli posizioni rispettabili in una società corrotta. L’educatore quindi non solo deve educare i ragazzi nel modo giusto, ma deve anche curarsi che i loro genitori non annullino quanto di buono potrà farsi a scuola. Davvero scuola e famiglia dovrebbero essere centri collegati di giusta educazione e in nessun modo dovrebbero contrastare l’uno con l’altro; non deve accadere cioè che i genitori desiderino una cosa e l’educatore ne attui un’altra completamente diversa. È molto importante che i genitori abbiano piena cono­scenza di quanto l’educatore va facendo e siano vivamente interessati al totale sviluppo dei loro figli. La responsabilità di assicurarsi che questo tipo di educazione venga compiuta appartiene ai genitori oltre che agli insegnanti, il cui compito è già abbastanza pesante. Un totale sviluppo del bambino può attuarsi soltanto quando vi sia il giusto rapporto fra insegnante, studente e genitori. Poiché l’educatore non può cedere alle passeggere fantasie o alle ostinate richieste dei genitori è necessario che questi ultimi comprendano l’educatore e collaborino con lui e non facciano nascere conflitti e confusione nei loro figli.
La naturale curiosità del bambino, la sua sete di apprendimento esistono proprio sin dal principio ed è certo che essa debba essere di continuo incoraggiata intelligentemente in modo che rimanga viva e libera da distorsioni, e lo conduca gradatamente allo studio di diverse materie. Se questa avidità di apprendimento verrà incoraggiata nel bambino in ogni momento allora lo studio della matematica, della geo­grafia, della storia, delle scienze o di qualunque altra materia non sarà un problema per il bambino o per l’educatore. L’apprendimento è faci­litato quando vi sia un’atmosfera di lieta affettuosità e di intelligente attenzione.
L’apertura emotiva e la sensibilità possono esser coltivate soltanto quando lo studente si sente sicuro nel suo rapporto con gli insegnanti. Il sentirsi sicuro nel rapporto con gli altri è un bisogno di prima impor­tanza per il bambino. C’è una grande differenza fra il sentirsi sicuro e il sentirsi dipendente. Consciamente o inconsciamente la maggior parte degli educatori coltivano un sentimento di dipendenza e di conseguenza insegnano sottilmente la paura, cosa che anche i genitori fanno in ma­niera affettuosa o aggressiva. Lo stato di dipendenza nel bambino è generato da_asserzioni autoritarie o dogmatiche da parte dei genitori su quel ch’egli debba essere e fare. Alla dipendenza si accompagna sempre l’ombra della paura, e questa paura costringe il bambino a obbedire, a conformarsi, ad accettare senza riflettere gli editti e le sanzioni degli adulti. In quest’atmosfera di dipendenza, la sensibilità viene schiac­ciata; ma quando il bambino sa e sente di essere sicuro, il suo pieno sboccio emotivo non è frustrato dalla paura.
Questo senso di sicurezza del bambino non è l’opposto dell’insicu­rezza. È il sentirsi tranquillo sia a casa che a scuola, il sentire che può essere quel che è senza venir costretto in alcuna maniera; che può arram­picarsi su di un albero e non venir rimproverato se cade. Il bambino potrà avere questo senso di sicurezza soltanto quando genitori ed edu­catori siano profondamente preoccupati del suo benessere totale.
È importante che a scuola il bambino si senta a suo agio, del tutto sicuro fin dal primo giorno. Questa prima impressione è della massima importanza. Tuttavia se l’educatore si ingegna artificiosamente, con mezzi diversi, di cattivarsi la confidenza del bambino e gli permette di fare quel che gli pare, egli ne coltiverà la dipendenza; non darà in tal modo al bambino la sensazione d’essere sicuro, la sensazione di trovarsi in un posto dove vi sono delle persone che si preoccupano a fondo del suo completo benessere.
Il primissimo impatto di questo nuovo rapporto fondato sulla confidenza, che il bambino può anche non aver mai sperimentato prima d’allora, lo aiuterà a trovare una comunicazione naturale, per la quale il più giovane non considererà gli adulti come una minaccia di cui temere. Un bambino che si sente sicuro ha modi suoi naturali di espri­mere quel rispetto che è essenziale per l’apprendimento. Questo rispetto esclude ogni autorità e ogni paura. Quando il bambino gode di un senso di sicurezza la sua condotta non è qualcosa che gli venga imposto da uno più grande di lui, ma diviene parte del processo di apprendimento. Dato che si sente sicuro nel suo rapporto con l’insegnante, il bambino sarà naturalmente rispettoso.
Ed è soltanto in questa atmosfera di sicurezza che possono fiorire apertura emotiva e sensibilità. Sentendosi tranquillo e sicuro il bambino farà quel che gli sarà gradito; ma facendo quel che gli piace scoprirà qual è la cosa giusta da fare e la sua condotta non sarà dovuta a resi­stenza, ad ostinazione o a sentimenti compressi né sarà mera espressione di un impulso momentaneo.
Sensibilità vuol dire essere sensibile a tutto quanto ci circonda: alle piante, agli animali, agli alberi, ai cieli, alle acque del fiume, all’uccello in volo; ed anche alla disposizione d’animo di chi ci circonda, allo stra­niero che passa vicino. Da questa sensibilità deriva un tipo di reazione non calcolata né egoistica, cioè una condotta e una moralità genuine. Se è sensibile il bambino si comporterà in modo aperto e non reticente; di conseguenza appena un accenno da parte dell’insegnante sarà accet­tato facilmente, senza resistenze o attriti.
Poiché ci preoccupa il totale sviluppo dell’essere umano, dobbiamo comprenderne le istanze emotive che sono molto più forti che non i ragionamenti intellettuali; dobbiamo coltivare la capacità emotiva e non contribuire a comprimerla. Quando noi comprendiamo, e di conseguenza siamo in grado di trattarle, sia questioni intellettuali che questioni emo­tive, non abbiamo alcun senso di paura nell’avvicinarci ad esse.
Per lo sviluppo totale dell’essere umano la solitudine come mezzo per coltivare la sensibilità diventa necessaria. Si deve sapere cosa sia stare soli, cosa sia meditare, cosa sia morire; e le implicazioni della solitudine, della meditazione, della morte, si possono conoscere soltanto se vengono ricercate e scoperte. Sono implicazioni che non possono venire insegnate, bisogna impararle, si può indicarle, ma apprendere la solitudine e la meditazione da una indicazione non equivale a speri­mentarle. Per avere l’esperienza di cosa sia la solitudine e cosa sia la meditazione bisogna essere in una disposizione di ricerca; soltanto la mente disposta alla ricerca è capace di apprendere. Ma quando una dottrina preesistente o quando l’autorità o l’esperienza di un’altra persona escludono la ricerca allora l’apprendimento diventa mera imita­zione e l’imitazione fa sì che l’essere umano ripeta quel che ha impa­rato senza averne avuto esperienza.
Insegnare non è semplicemente impartire nozioni ma coltivare una mente perché ricerchi da sé. Questa mente penetrerà il problema di cosa sia la religione e non si limiterà ad accettare religioni stabilite con i loro templi e i loro rituali. La ricerca di Dio, o della verità, o di comunque si voglia definirlo – e non il limitarsi ad accettare credenze e dogmi – è vera religione.
Allo stesso modo per cui lo studente ogni mattina si lava i denti, fa
il bagno ogni giorno, apprende ogni giorno nuove cose, così dev’esserci
anche l’azione di star seduto in quiete con altri o da solo. Questa solitudine dà alla mente una stabilità e una costanza che non vanno misurate in termini di tempo. Questa chiarezza della mente è carattere. La mancanza di carattere equivale ad uno stato di contraddizione interiore.
Essere sensibili è amare. La parola “amore” non è l’amore. E l’amore
non va suddiviso in amore di Dio e amore degli uomini, né va misurato in amore per una persona e amore per molte. L’amore elargisce se stesso con abbondanza come un fiore il suo profumo; ma noi stiamo sempre a misurare il nostro amore in tutte le nostre relazioni e in tal modo lo distruggiamo.
L’amore non è un prodotto di consumo del riformatore o di chi opera socialmente; non è uno strumento politico con cui creare l’azione. Quando il politico o il riformatore parlano di amore usano la parola e non toccano la realtà; non si può servirsi infatti dell’amore come di un mezzo per raggiungere un fine, sia nell’immediato o nel remoto futuro. Amore è tutta la terra non una foresta o un campo particolari. L’amore per la realtà non è racchiuso in nessuna religione; e quando le religioni organizzate ne fanno uso, esso cessa di esistere. Le società, le religioni organizzate ed i governi autoritari, zelanti nelle loro diverse attività, senza saperlo distruggono l’amore trasformandolo in attività passionale.
Nel totale sviluppo dell’essere umano attraverso una giusta educazione, la qualità dell’amore va nutrita e sostenuta proprio sin dal principio. Amore non è sentimentalismo né devozione. Esso è tenace come la morte. L’amore non si può acquistare mediante il sapere; ed una mente che ricerchi il sapere senza l’amore è una mente che agisce spieta­tamente e mira soltanto all’efficienza.
Perciò l’educatore deve preoccuparsi sin dal principio della qualità di quest’amore che dev’essere umiltà, mitezza d’animo, considerazione, pazienza e cortesia. Modestia e cortesia sono spontanee nell’uomo che abbia avuto una giusta educazione; il suo è riguardo per tutti, compresi animali e piante, e si riflette nel suo comportamento e nel suo modo di parlare.
L’enfasi posta su tale qualità dell’amore libera la mente e la distoglie dall’attaccamento alla propria ambizione, avidità e ingordigia. L’amore non possiede forse una finezza che si esprime in rispetto e buon gusto? Non porta con sé anche una purificazione della mente che senza di esso ha la tendenza di indurirsi nella superbia? La finezza di comportamento non è un adeguamento autoimposto, né è la risposta ad esigenze este­riori; sgorga spontanea dalla qualità di questo amore. Quando vi è comprensione derivata da amore allora il sesso e tutte le complicazioni e le sottigliezze dei rapporti umani si potranno avvicinare in maniera sana, non con concitazione e apprensione.
L’educatore che consideri di primissima importanza lo sviluppo totale dell’essere umano, deve capire le implicazioni dei bisogni sessuali che tanta parte giocano nella nostra vita e dev’essere capace sin dal principio di soddisfare la naturale curiosità dei bambini senza destare in essi un interesse morboso. Limitarsi a impartire nozioni biologiche nell’età dell’adolescenza può condurre a libidine sperimentale qualora non ci sia quella qualità essenziale che è l’amore. L’amore ripulisce la mente dal male. Quando non c’è amore e comprensione da parte dell’educatore, il limitarsi a separare maschi da femmine col filo spinato o con ingiunzioni, varrà soltanto a rafforzare la loro curiosità e stimolare quella passione che dovrà necessariamente degenerare in mera soddi­sfazione dei bisogni sessuali. È quindi importante che ragazzi e ragazze siano educati insieme nella giusta maniera.
Questa qualità, l’amore, deve esprimersi anche nel lavoro manuale: giardinaggio, falegnameria, pittura, lavori artigiani; e per mezzo dei sensi: vedere gli alberi, le montagne, la ricchezza della terra, la povertà che gli uomini hanno creato fra loro; e ascoltando musica, il canto degli uccelli, il mormorio di acque fluenti.
A noi interessa non soltanto che si coltivi la mente e che si risvegli la sensibilità emotiva, ma anche un armonioso sviluppo fisico, e a questo dobbiamo dedicare parecchia attenzione. Infatti se il corpo non è sano e vitale inevitabilmente porterà ad una deformazione mentale e ad una mancanza di sensibilità. Questo risulta talmente ovvio che non occorre scendere a particolari. é necessario che il corpo sia in eccellente stato di salute, che riceva il giusto tipo di alimentazione e che gli sia consentito sonno sufficiente. Se i sensi non sono svegli il corpo impedirà il totale sviluppo dell’essere umano. Per possedere grazia di movimenti e un ben equilibrato controllo della muscolatura si deve fare esercizio fisico di vario tipo, ballo e giochi all’aria aperta. Un corpo che non sia tenuto pulito, che sia trasandato e non si tenga nella giusta posizione, non è facilmente avviabile alla sensibilità della mente e delle emozioni. Il corpo non è lo strumento della mente; ma il corpo, le emozioni e la mente compongono insieme l’essere umano e qualora non vivano insieme armoniosamente il conflitto è inevitabile.
Il conflitto produce insensibilità. La mente può anche dominare il corpo e comprimere i sensi, ma in tal modo renderà il corpo insensibile; e un corpo insensibile diventa un ostacolo al pieno volo della mente. La mortificazione del corpo decisamente non facilita l’esame degli strati più profondi della propria coscienza; questo infatti è possibile soltanto quando la mente, le emozioni e il corpo non siano in contraddizione fra loro, ma siano integrati e procedano all’unisono, senza sforzo, senza la spinta di alcun’idea, credenza o ideale.
Nel coltivare la mente bisogna porre l’accento non sulla concentra­zione bensì sull’attenzione. La concentrazione è un processo per cui la mente viene costretta a focalizzarsi su un singolo punto, laddove l’attenzione non ha frontiere. Nel processo di concentrazione la mente è sempre limitata da una frontiera o da un confine, ma se il nostro interesse è comprendere la totalità della mente la mera concentrazione diventa un ostacolo. L’attenzione non ha limiti, non ha le frontiere del sapere. Il sapere deriva dalla concentrazione e, per vasto che esso possa essere, resterà pur sempre chiuso entro le proprie frontiere. Nella condizione di attenzione la mente può usare e usa il sapere che è necessa­riamente risultato della concentrazione; ma la parte non è mai il tutto, e la somma delle varie parti non produce la percezione del tutto. Il sapere, che costituisce il processo di addizione della concentrazione, non genera la comprensione dell’incommensurabile. Il totale non è mai com­preso nelle parentesi di una mente concentrata.
L’attenzione dunque è di capitale importanza, ma essa non nasce da uno sforzo di concentrazione. L’attenzione è uno stato della mente per cui essa continua ad apprendere sempre senza che vi sia un centro intorno a cui si raccolgano le cognizioni come esperienza accumulata. Una mente concentrata su se stessa adopera il sapere come mezzo per la propria espansione, e questa attività diventa contraddittoria e antisociale.
Apprendere nel vero senso della parola è possibile soltanto in quello stato di attenzione nel quale non esiste costrizione esterna, o interiore. Si può pensare nella giusta maniera soltanto quando la mente non sia schiava della tradizione o della memoria. È l’attenzione che consente il formarsi del silenzio nella mente, ed è questo silenzio che apre la porta alla creazione. Ecco perché l’attenzione è della massima importanza.
A livello funzionale il sapere è necessario come mezzo per coltivare la mente e non come fine a se stesso. A noi interessa non lo sviluppo di una singola capacità, come quella del matematico o dello scienziato o del musicista, ma il totale sviluppo dello studente in quanto essere umano. Come determinare uno stato di attenzione? Non lo si può coltivare per mezzo della persuasione, del confronto, della ricompensa o del castigo, tutte quante forme di coercizione. Con l’eliminazione della paura ha principio l’attenzione. La paura esisterà necessariamente finché vi sia in atto una forte spinta ad essere o diventare, cioè l’inseguimento del successo con tutte le frustrazioni e le tortuose contraddizioni ch’esso porta con sé. Si può insegnare la concentrazione, ma l’attenzione non può insegnarsi, proprio come non è possibile insegnare la libertà dalla paura; ma possiamo cominciare a scoprire quali cause producano paura; comprendere queste cause equivale ad eliminare la paura. L’attenzione sorgerà spontanea dunque quando intorno allo studente vi sarà una atmosfera di benessere: quand’egli avrà il senso della sicurezza e della tranquillità sarà consapevole di un’azione disinteressata che deriva da amore. L’amore non fa confronti e così l’invidia ed il tormento di voler “diventare” cessano.
Lo scontento generale che tutti noi giovani o vecchi sperimentiamo, trova presto una via verso una qualche soddisfazione e in tal modo la nostra mente viene messa a dormire. Di tanto in tanto la sofferenza risveglia l’insoddisfazione, ma la mente ricerca nuovamente una solu­zione che la soddisfi. In questa ruota di insoddisfazione e appagamento la mente si trova presa prigioniera ed il continuo risveglio dovuto al dolore fa parte del nostro scontento. L’insoddisfazione è la via aperta alla ricerca, ma non può esserci ricerca se la mente è incatenata alla tradizione, agli ideali. La ricerca è la fiamma dell’attenzione.
Quando parlo di insoddisfazione intendo alludere a quello stato della mente per cui essa comprende ciò che è, l’attuale, e indaga continuamente per scoprire più oltre. L’insoddisfazione è un moto verso il supe­ramento delle limitazioni di ciò che è; e quando voi trovate modi e sistemi per soffocare o superare l’insoddisfazione, accettate allora le limitazioni di un’attività egocentrica e della società nella quale vi trovate.
L’insoddisfazione è la fiamma che brucia le scorie dell’appagamento, ma la maggior parte di noi si adopera per dissiparla in diversi modi. L’insoddisfazione diventa allora perseguimento del “di più”, desiderio di una casa più grande, di un’automobile più bella, e così via, tutte cose racchiuse nel campo dell’invidia; ed è l’invidia che alimenta questo scontento. Ma io sto parlando di insoddisfazione scevra da invidia, scevra da ingordigia del “di più”, un’insoddisfazione che non sia alimentata da alcun desiderio di appagamento. Questa insoddisfazione è una condi­zione incontaminata, che esiste in ciascuno di noi quando non venga soppressa da un’educazione sbagliata, da soluzioni appaganti, dall’ambi­zione, o dall’inseguimento di un. ideale. Quando noi comprendiamo la natura di un’insoddisfazione genuina vedremo che l’attenzione fa parte di questa fiamma ardente che consuma la meschinità e lascia la mente libera dai limiti di ambizioni e compiacimenti che sono fine a se stessi.
L’attenzione dunque comincia ad esistere soltanto quando vi è ricerca, non fondata su desiderio di avanzamento o di appagamento personalistico. Bisogna coltivare quest’attenzione nel bambino, proprio fin dagli inizi. Troverete che quando c’è l’amore – che si esprime nell’umiltà, cortesia, pazienza, mitezza – voi sarete già liberi dalle barriere che l’insensibilità costruisce; aiuterete così anche questo stato di atten­zione a scaturire nel bambino sin dall’età più tenera.
L’attenzione non è cosa che si possa apprendere, ma voi potete aiutarne il risveglio nello studente evitando di creare intorno a lui quel senso di costrizione che produce un’esistenza contraddittoria. La sua attenzione allora potrà focalizzarsi in qualsiasi momento su un qualsiasi determinato argomento, e non si tratterà della ristretta concentrazione generata da un’imperiosa sete di acquisizione o di affermazione.
Una generazione di giovani educati in questa maniera sarà libera dalla brama di acquisizione e dalla paura, eredità psicologica ricevuta dai genitori e dalla società dove sono nati; ed essendo educati in questa maniera essi non dipenderanno dall’eredità di possedimenti. Questa questione dell’eredità distrugge la vera indipendenza e limita l’intelli­genza; poiché promuovendo una fiducia in se stessi che non ha alcuna base, produce un falso senso di sicurezza e crea un ottundimento della mente da cui nulla di nuovo potrà germogliare. Ma una generazione educata nella maniera completamente diversa che abbiamo esaminato, darà vita ad una nuova società; poiché essa possiederà quella capacità che nasce da un’intelligenza che non sia ostacolata da paura.
Dato che la responsabilità dell’educazione appartiene ai genitori oltre che agli insegnanti, dobbiamo imparare l’arte di lavorare insieme, e questo sarà possibile soltanto quando ciascuno di noi capisca che cosa sia vero. È la percezione della verità che ci riunisce, non opinioni, cre­denze e teorie. C’è una grandissima differenza fra il concettuale e il reale. Il concettuale potrà forse temporaneamente unirci, ma si verifi­cherà una nuova separazione se il nostro lavoro comune si baserà soltanto su convinzioni. Se ciascuno di noi vedrà la verità, potranno sor­gere divergenze nei dettagli ma non vi sarà esigenza di separazione. Soltanto gli sciocchi rompono i rapporti a cagione di qualche dettaglio. Quando la verità sia percepita da tutti il dettaglio non potrà mai diven­tare materia di dissenso.
La maggior parte di noi è abituata ad operare insieme lungo le linee dell’autorità vigente. Ci riuniamo per elaborare un’idea o per far pro­gredire un ideale e questo richiede convinzione, persuasione, propaganda e così via. Questo lavorare insieme per una concezione, per un ideale è cosa completamente diversa dalla cooperazione che nasce quando si è compresa la verità e la necessità di tradurla in azione. Operare sotto lo stimolo di un’autorità – che sia l’autorità di un ideale o l’autorità di una persona che rappresenti questo ideale – non è vera cooperazione. Un’autorità centrale che sa molte cose o che ha una forte personalità ed è assillata da determinate idee potrà costringere o persuadere sottilmente gli altri a lavorare con lui per ciò ch’egli chiama l’ideale; ma non è certo questo l’operare insieme di individui vigili e vitali. Mentre invece quando ciascuno di noi comprenderà da sé la verità su qualsiasi questione allora la comune comprensione di quella verità condurrà a un tipo di azione che è cooperazione. Chi coopera perché vede la verità come verità, il falso come falso, e la verità nel falso saprà anche quando non deve cooperare e questo è altrettanto importante.
Se ciascuno di noi si rende conto della necessità di una rivoluzione fondamentale nell’educazione e percepisce la verità delle considerazioni che abbiamo fatto, colui parteciperà al lavoro comune senza che vi sia bisogno di alcuna forma di persuasione. La persuasione esiste soltanto quando qualcuno prende una posizione dalla quale non desidera sco­starsi. Quando egli sia soltanto convinto di un’idea o barricato dietro un suo parere, produrrà un’opposizione e allora occorre che o lui o il suo oppositore venga persuaso, influenzato, o indotto a pensare in maniera diversa. Questa situazione non sorge mai quando ciascuno di noi vede da sé la verità su una questione. Ma se non vediamo la verità e agiamo sulla base di una convinzione puramente verbale o di un ragionamento intellettuale, allora non potrà mancare di sorgere contesa, accordo, o disaccordo, con tutte le conseguenti distorsioni e vane fatiche.
È essenziale che si lavori insieme, ed è come se si costruisse insieme una casa. Se alcuni di noi costruiscono ed altri demoliscono evidentemente la casa non verrà mai costruita. Dobbiamo quindi essere indivi­dualmente molto chiari in modo da vedere e capire realmente la neces­sità di attuare un genere di educazione che produca una generazione capace di fronteggiare i problemi della vita come un tutto unico e non come parti separate, dissociate dal tutto.
Per essere in grado di lavorare insieme in questa genuina coopera­zione dobbiamo incontrarci spesso ed essere vigili contro il pericolo di venir travolti dai dettagli. Quelli fra noi che si dedicano con serietà a porre in atto il giusto sistema di educazione non solo hanno la respon­sabilità di tradurre in azione tutto quel che abbiamo compreso, ma anche di aiutare gli altri a giungere a questa comprensione. L’insegnamento è la più nobile delle professioni  seppure può chiamarsi professione. È un’arte che non richiede semplicemente doti intellettuali, ma infinita pazienza e amore. Ricevere una vera educazione vuol dire comprendere il nostro rapporto con tutte le cose – il denaro, la proprietà, le persone, la natura – che esistono nel vasto campo della nostra esistenza.
La bellezza fa parte di questa comprensione, ma la bellezza non è solamente una questione di proporzioni, forma, buon gusto e comportamento. La bellezza è quello stato per il quale la mente, nella passione per la semplicità, cessa di gravitare intorno all’io. Non vi è fine alla semplicità; e può esservi semplicità soltanto quando vi sia un’austerità che non discende da una disciplina calcolata e da abnegazione, un’auste­rità che è abbandono di se stessi e che soltanto l’amore può generare. Quando non abbiamo amore creiamo una civiltà che persegue la bel­lezza della forma e non l’interiore vitalità ed austerità del semplice abbandono di se stessi. Non c’è abbandono di se stessi se c’è sacrificio di se stessi per buone azioni, ideali, credenze. Queste attività sembrano libere dall’io, ma in realtà l’io lavora ancora sotto diverse etichette.
Soltanto la mente innocente può indagare nell’ignoto. Ma l’innocenza calcolata – che potrà indossare un perizoma o il saio del monaco – non è quella passione di abbandono di se stessi, dalla quale nascono la cortesia, la mitezza, l’umiltà, la pazienza: le espressioni dell’amore.
Per lo più noi conosciamo la bellezza soltanto attraverso ciò ch’è stato creato o composto – la bellezza di una forma umana o di un tempio. Diciamo che un albero o una casa o l’ansa profonda di un fiume sono belli. E servendoci di un paragone sappiamo cos’è la brut­tezza, almeno crediamo di saperlo. Ma la bellezza è davvero passibile di confronti? La bellezza è davvero ciò che è stato reso evidente, mani­festo? Noi consideriamo bello un determinato quadro, una poesia, un volto, perché sappiamo già quel che è la bellezza da quanto ci è stato insegnato oppure da quel che ci è familiare e del quale ci siamo già formati un’opinione. Ma non cessa forse la bellezza di essere tale se la sottomettiamo a un paragone? La bellezza è dunque solo familiarità col già noto oppure è un modo di essere nel quale può esserci o anche non esserci la forma creata?
Perseguiamo sempre la bellezza ed evitiamo il brutto e questo voler arricchirci per mezzo della prima ed evitare il secondo non può che generare insensibilità. È certo che per comprendere o sentire cos’è la bellezza dev’esserci sensibilità sia per il cosiddetto bello che per il cosid­detto brutto. Un sentimento non è né bello né brutto se è un sentimento e nient’altro. Ma noi lo consideriamo attraverso il nostro condi­zionamento religioso e sociale e gli diamo un’etichetta; diciamo che è un sentimento buono o un sentimento cattivo e in tal modo lo stor­piamo o lo distruggiamo. Quando un sentimento non riceve alcuna etichetta esso conserva la sua intensità ed è quest’intensità appassionata il fattore essenziale per la comprensione di quella cosa che non è brut­tezza, e nemmeno bellezza manifesta. Ciò che ha la massima importanza è un sentimento robusto, quella passione cioè che non è mera libidine di appagamento personale; è infatti questa passione che crea la bellezza, la quale, non essendo passibile di confronti, non può avere opposti.
Quando ci sforziamo di determinare lo sviluppo totale dell’essere umano dobbiamo evidentemente considerare a fondo l’inconscio oltre che il conscio della mente. Limitarsi ad educare il conscio senza com­prendere l’inconscio provoca contraddizione interiore nella vita umana con tutte le frustrazioni e sofferenze che l’accompagnano. La parte na­scosta della mente è di gran lunga più importante di quella superficiale. Gli educatori per la maggior parte si preoccupano soltanto di impartire nozioni e conoscenze alla mente superficiale preparandola alla conquista di un impiego e all’adattamento ad una società. In tal modo la parte nascosta della mente non viene mai raggiunta; la cosiddetta educazione, dunque, non fa che sovraimporle uno strato di cognizioni e di compe­tenza tecnica unite ad una certa capacità di adeguamento all’ambiente.
La parte nascosta della mente ha una potenza di gran lunga superiore a quella della mente superficiale per beneducata e capace di adattamento che quest’ultima possa essere; e non c’è niente di misterioso in questo. La parte nascosta o inconscia della mente è il ricettacolo di memorie razziali. Religione, superstizione, simboli, tradizioni proprie a una razza particolare, l’influenza della letteratura sia sacra che profana, delle aspirazioni, delle frustrazioni, del diverso comportamento e della diversa qualità del cibo, tutto questo è radicato nell’inconscio.
I segreti palesi o nascosti, con le loro motivazioni, speranze e timori, con le loro pene e piaceri, le credenze alimentate da quella brama di sicurezza che si esprime in modi diversi, tutte queste cose sono anch’esse contenute nella parte nascosta della mente umana la quale non ha soltanto questa straordinaria capacità di trattenere i residui del passato, ma anche quella di influenzare l’avvenire. Tutto ciò si rivela alla parte superficiale della mente nei sogni e in vari altri modi, nei momenti in cui non è interamente occupata dai fatti quotidiani.
La parte nascosta della mente non è qualcosa di sacro né qualcosa di cui ci si debba spaventare e non c’è nemmeno bisogno di uno specialista che la renda palese alla parte superficiale della mente. Ma a causa della enorme potenza della parte nascosta quella superficiale non può trattarla come vorrebbe. La parte superficiale della mente è in larga misura im­potente nel suo rapporto con la parte nascosta di se stessa. Per grandi che siano i suoi sforzi di dominare, modellare e controllare la parte nascosta per i suoi bisogni e le sue esigenze sociali, la parte superficiale può soltanto graffiare la superficie della parte nascosta; perciò esiste una profonda frattura fra le due. Noi cerchiamo di colmare quest’abisso per mezzo della disciplina, per mezzo di pratiche varie, sanzioni e così via; ma non lo si può colmare in questa maniera.
La mente conscia è occupata dal presente immediato e limitato, laddove l’inconscio sopporta il peso di secoli e non può essere arginato o deviato da una immediata necessità. L’inconscio ha nella sua natura la profondità del tempo e la mente conscia con la sua cultura recente, non può trattarlo secondo le proprie passeggere esigenze. Per sradicare la contraddizione interiore occorre che la parte superficiale della mente capisca questo fatto e sia quiescente, il che non significa dar via libera alle innumerevoli istanze della parte nascosta della mente. Quando non c’è resistenza tra la parte palese e la nascosta, allora la parte nascosta che possiede la pazienza dovuta al tempo, non farà violenza all’im­mediato.
La mente nascosta inesplorata e non compresa con la sua parte superficiale che è stata “educata”, viene a contatto con le pretese e le esigenze, ma, essendoci una contraddizione fra la parte superficiale e quella nascosta, qualunque esperienza di quella superficiale varrà soltanto ad aumentare il conflitto fra se stessa e la parte nascosta. Questo produce ancora nuova esperienza e di nuovo questa allargherà lo spacco fra presente e passato. La mente superficiale, sperimentando quanto è esterno senza comprendere la parte interiore, la parte nascosta di sé, non fa che produrre un conflitto sempre più profondo ed esteso.
L’esperienza non libera né arricchisce la mente, come generalmente pensiamo. Fino a quando l’esperienza rafforza colui che la prova vi sarà necessariamente conflitto. Una mente condizionata nel fare espe­rienze non fa che rafforzare il proprio condizionamento, perpetuando così contraddizione e sofferenza. Soltanto per la mente capace di com­prendere tutte quante le vie di se stessa può l’esperienza essere un fattore di liberazione.
Quando vi sia percezione e comprensione dei poteri e delle capacità dei molti strati della mente nascosta, allora si potranno studiare i det­tagli con saggezza e intelligenza. Quel che importa è comprendere la parte nascosta, e non soltanto educare la parte superficiale della mente ad acquistare cognizioni, per necessarie che possano essere. La com­prensione della mente nascosta libera la mente nel suo complesso dal conflitto interiore, e soltanto allora si ha intelligenza.
Dobbiamo risvegliare la piena capacità della parte superficiale della mente che vive nell’attività quotidiana, ed anche capire quella nascosta. Nella comprensione della parte nascosta è la vita completa, nella quale la contraddizione interiore, che è poi l’alternarsi di dolore e felicità, viene a cessare. È essenziale conoscere la parte nascosta della propria mente ed essere consci del suo lavorio; ma è egualmente importante non esserne presi o darle eccessiva importanza. Soltanto quando la mente comprende la parte superficiale e la parte nascosta di se stessa essa può andare oltre i propri limiti e scoprire quello stato di beatitudine che non appartiene al tempo.
J. Krishnamurti

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