martedì 17 gennaio 2012

Krishnamurti: La capacità di penetrazione nell’attività del sé



La maggior parte degli esseri umani è egoista. Non è consape­vole del proprio egoismo; è il suo modo di vivere. E se uno è consapevole di essere egoista, lo nasconde con molta attenzione e si conforma al modello della società che è essenzialmente egoista. La mente egoista è molto astuta, sia che essa sia brutalmente e apertamente egoista o che assuma parecchie forme. Se sei un uomo politico, l’egoismo ricerca potere, posizione sociale e popolarità; si identifica con un’idea, una missione, e tutto per il bene pubblico. Se sei un tiranno, si esprime in dominio brutale. Se sei incline a essere religioso, assume la forma di adorazione, devozione, adesione a un qualche credo, un qualche dogma. Si esprime, altresì, nella famiglia; il padre persegue il proprio egoismo in tutti i campi della sua vita e così fa la madre. Fama, benessere, bell’aspetto formano una base per questo na­scosto, pervadente movimento del sé. Esso è nella struttura ge­rarchica del clero, per quanto questo possa dichiarare il proprio amore per Dio, il proprio attaccamento all’immagine autopro­dotta della propria divinità personale. I capitani dell’industria e il modesto impiegato provano questa crescente e paralizzante sensualità del sé. Il monaco che ha rinunciato alle vie mondane può errare per il mondo o essere rinchiuso in qualche monaste­ro, ma non ha abbandonato questo incessante movimento del sé. Possono cambiare il proprio nome, portare delle vesti, oppure fare voto di castità o di silenzio, ma ardono per un ideale, una qualche immagine, un qualche simbolo.

È lo stesso per gli scienziati, i filosofi e i professori universitari. Chi compie buone azioni, i santi, i guru, l’uomo o la donna che operano senza sosta a favore del bisognoso – tutti costoro si sforzano di perdersi nella propria opera, ma l’opera fa parte di tale movimento. Hanno trasferito l’egotismo ai loro compiti. È un processo che comincia nell’infanzia e continua sino alla vecchiaia. La presunzione della conoscenza, l’esperta umiltà del capo, la sposa che si sottomette, l’uomo che domina: in tutti c’è questo male. Il sé s’identifica con lo Stato, con un’infi­nità di gruppi, un’infinità di idee e cause, ma resta ciò che era all’inizio.

Gli esseri umani hanno provato varie pratiche, vari metodi, varie meditazioni per liberarsi di questo centro che è causa di tanta infelicità e confusione ma, come un’ombra, esso non viene mai catturato. È sempre là, e ti scivola fra le dita, dalla mente. Talvolta è rafforzato o si fa debole, secondo le circostanze. Lo spingi li e salta fuori là.

Viene da chiedersi se l’educatore, che è così responsabile della nuova generazione, comprenda a un livello non verbale che cosa dannosa sia il sé – come corrompa, come alteri, come sia pericoloso nelle nostre esistenze. Può non sapere come libe­rarsene; può addirittura non essere consapevole che è lì, ma una volta che veda la natura del movimento del sé, può – lui o lei – comunicarne le sottigliezze allo studente? E non è forse una sua responsabilità farlo? La capacità di penetrazione nell’attività del sé è più grande dell’apprendimento universita­rio. La conoscenza può essere usata dal sé per la sua propria espansione, la sua aggressività, la sua innata crudeltà.

L’egoismo è il problema essenziale della nostra vita. Il confor­marsi e l’imitazione sono parte del sé, come lo sono la compe­tizione e la crudeltà del talento. Se l’educatore in queste scuole si prende seriamente a cuore tale questione, cosa che io spero faccia, allora come aiuterà lo studente a essere privo di egoi­smo? Potrebbe dire che è uno strano dono del cielo, o respingerlo come impossibile. Ma se è serio come si deve essere e del tutto responsabile dello studente, come si accingerà a liberare la mente da questa eterna, vincolante energia, il sé, che ha cau­sato tanto dolore? Non gli spiegherebbe forse con grande cura – il che implica affetto – e con parole semplici quali sono le conseguenze quando parla con rabbia, o quando picchia qualcuno, o quando pensa al proprio interesse? Non è possibile spiegargli che, quando afferma: «questo è mio», o si vanta: «l’ho fatto io», o evita, per paura, una certa azione, sta co­struendo un muro, mattone su mattone, attorno a se stesso? Non è possibile, quando i suoi desideri, le sue sensazioni so­verchiano il suo pensare razionale, far rilevare che l’ombra del sé si sta accrescendo? Non è possibile dirgli che dove c’è il sé, qualsiasi aspetto esso abbia, non c’è amore?

Ma lo studente potrebbe chiedere all’educatore: «Ha compreso tutto questo o sta solo giocando con le parole?» Proprio questa domanda potrebbe risvegliare la sua intelligenza e quella stessa intelligenza le darà, come risposta, la giusta sensibilità e le giuste parole.

In qualità di educatore lei non ha uno status. E' un essere uma­no, con tutti i problemi della vita che ha uno studente. Nel momento in cui si esprime da uno status, in realtà distrugge la relazione umana. Lo status implica potere e quando ne è alla ricerca, consapevolmente o inconsapevolmente, entra in un mondo di crudeltà. Ha una grande responsabilità, amico mio, e se si assume questa responsabilità completa che è amore, al­lora le radici del sé sono rimosse. Questo non viene detto come incoraggiamento, o per farle sentire che lo deve fare. Ma, essendo tutti degli esseri umani, rappresentando l’intera uma­nità, siamo in tutto e per tutto responsabili, che ci piaccia o no. Può cercare di evitarlo ma proprio questo movimento è l’azio­ne del sé. Chiarezza di percezione è libertà dal sé.

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